FIANCHI SUDAMERICANI HO SEMPRE TUTTI GLI OCCHI ADDOSSO QUANDO

FIANCHI SUDAMERICANI HO SEMPRE TUTTI GLI OCCHI ADDOSSO QUANDO






Ho sempre tutti gli occhi addosso

FIANCHI SUDAMERICANI


Ho sempre tutti gli occhi addosso. Quando cammino per la strada tutti mi guardano. Come se dicessi: “Tutti gli occhi a me, gente!”

Tutti mi conoscono, tutti sanno la mia vita e le mie avventure. Sono come una leggenda. Sono sulla bocca di tutti. Migliaia di ragazzini, adulti e vecchi, parlano di me, discutono della mia vita, anche delle cose di cui, come si dice, non vado fiero. Come la gente sappia le storie su di me, io non ne ho idea. Ho sentito racconti che parlavano della mia vita tra i banchi di scuola, episodi dei miei viaggi, ipotesi sull’inizio della mia carriera. Molte voci sono false, molte storie sono costruite sopra un minuscolo pezzo di verità, ma a tutti piace raccontare storie, soprattutto quando non riguardano noi. Purtroppo però, la gente non sa perché faccio quel che faccio, perché sono quel che sono. Lo faccio semplicemente perché non potevo fare altro, era quello a cui ero destinato, come loro sono destinati a diventare medici, fruttivendoli o pizzaioli.

Io ero destinato a fare musica, a essere musica. L’ho capito quando i miei nonni mi regalarono la mia prima chitarra acustica. Era tempo che facessi qualcosa di utile, mi dissero. Era blu, un manico e una cassa armonica. Mi ricordava i fianchi di una donna meravigliosa e sudamericana. Ho iniziato a suonarla lasciandomi trasportare dell’ispirazione; ho creato musica orrenda e la promessa di andare in America e trovare la donna che aveva i fianchi della mia chitarra.

Ho imparato a suonare da autodidatta, sbagliando milioni di volte, sentendomi frustrato ad ogni errore. Copiavo le musiche dei Beatles, passavo ore da solo a suonare. Smettevo solo quando le dita mi facevano male. Non avevo molti amici, loro non capivano la mia passione.

Passò del tempo, finii il liceo. Ormai sapevo suonare e la musica mi viveva dentro. Scelsi di fare il mio viaggio di maturità in Sud America; volevo attraversarla da sud a nord con una motocicletta, volevo trovare quella donna, volevo cambiare il mondo. Mi portai qualche vestito e la mia chitarra blu. I miei genitori non ne furono contenti, non lo sono nemmeno ora, forse.

Comprai un biglietto aereo per Buenos Aires e da lì iniziò il mio viaggio. Si può dire che iniziò la mia vita.

Conobbi ragazzi che mi insegnarono a ballare le loro danze, donne che mi offrivano le bevande più buone, bambini che mi chiesero di giocare con loro. Per vivere, suonavo. Suonavo tutto, suonavo quello che mi chiedevano. Guadagnavo da vivere facendo quello che mi piaceva. Ben presto iniziai a diventare conosciuto.

Lasciata l’Argentina, visitai il Chile, il Paraguay, il Brasile. Ho dentro di me una tempesta di ricordi di quegli anni, dove era tutto nuovo, quando mi stupivo di qualsiasi cosa e dove la fama non era ancora un peso. Ben presto scoprii che la mia chitarra aveva i fianchi di molte donne, delle quali mi innamoravo e mi dimenticavo in troppo poco tempo. Avevo la mia musica e dovevo continuare il mio viaggio; quelle donne mi avrebbero rivisto quando sarei diventato famoso. Non ho mantenuto la promessa, sono famoso e quelle donne non le ho mai più riviste. Ad ogni modo imparai lo spagnolo, mangiai pesci che nemmeno sapevo che esistessero e risi delle barzellette in portoghese.

Lasciai il Sud America e non mi ricordo in che modo raggiunsi gli Stati Uniti. San Francisco, Los Angeles, New York, Key West.

Conobbi altre persone, altri ragazzi, altre donne. Registrai un disco. Forse fu quello a farmi diventare davvero famoso, per quello tutti ora si girano a guardarmi, mi salutano e mi chiedono di cantare. Ho ancora qualche copia di quel disco.

La mia chitarra blu non mi abbandonò mai.

Visitai posti incantati che nemmeno il bambino con la più fervida immaginazione poteva inventarsi. Iniziai a fare concerti, chiedevo soldi per cantare. Mi sentii come se tradissi la musica, ma dovevo vivere, mi servivano.

Da quel momento non ho più smesso, ogni volta che ne ho le forze e le possibilità organizzo concerti. Mi sono esibito in tutte le città.

Londra, dove la gente di ogni colore ballava e non giudicava. Barcellona, dove conobbi la gente più felice al mondo. Parigi, dove regalai la mia musica all’arte della città e duettai con altri artisti che avevano una storia simile alla mia. Berlino, dove pur non capendo nemmeno una parola, feci divertire ragazze bionde e uomini altissimi. Praga, dove bevvi la migliore birra del mondo, mondo che io avevo girato. Vienna, che mi lasciò impresso per sempre il ricordo della torta al cioccolato che ti si scioglie in bocca.

Il mondo era mio e della mia chitarra blu. Mi sentivo libero, avevo la libertà, ho la libertà. Posso andare dove voglio, fare quello che voglio. Non ho limiti di tempo e di spazio, non ho canoni da seguire. Ho tutto. Posso prendere treni diretti nel sud Italia e ascoltare gli applausi di persone che parlano la mia stessa lingua in una lingua diversa. Posso prendere navi e ascoltare la povertà africana, suonando per portare solo pura speranza. Mi è permesso prendere aerei e vivere il sogno americano sotto il sole cocente della Florida, suonando sulla sabbia. Posso partire per il freddo penetrante della Russia, congelandomi le mani mentre suono per donne in pelliccia e bambini infagottati.

L’ho sempre avuta dentro questa libertà, ma non sapevo cosa fosse. Quando l’ho capito sono stato libero di tornare a casa, nella mia città, dove suono per la mia gente. Ho capito che sono libero di essere quello che sono. Suona banale, ma l’ha detto anche il mio amico Jim, che è talmente mio amico che quasi sempre ci troviamo a pensare le stesse cose. “Ci sono diversi tipi di libertà, e ci sono parecchi equivoci in proposito…Il genere più importante di libertà è di essere ciò che si è davvero”. Questo diceva il mio amico Jim.

Ma non sono l’unico che possiede questa libertà, sarebbe troppa per una persona sola. Ho amici che sono come me, vivono come me.

Ci troviamo a mangiare insieme tutte le sere. Parliamo della nostra vita, dei nostri viaggi. I racconti non sono mai troppi. A volte ci ritroviamo a litigare perché non sappiamo deciderci sul miglior luogo dove suonare. Ricordiamo insieme i nostri genitori e la loro delusione quando, chi prima chi dopo, dicemmo loro cosa volevamo fare nella vita. Ricordiamo i loro sguardi quando erano giovani, sguardi che non vediamo più da troppo tempo. Si sono stancati di cercarci e di rincorrerci, e noi non abbiamo il coraggio di tornare da loro. Siamo grandi e siamo famosi, non ci servono i genitori.

Siamo talmente famosi che non dobbiamo nemmeno pagare quello che mangiamo al ristorante. Cuochi e camerieri lavorano per noi e non vogliono ricompense. La musica che facciamo per loro è abbastanza, credo. Possiamo anche chiedere il bis e il tris, addirittura un secondo dolce. I signori del ristorante non ci dicono di no, non ne hanno il coraggio. Possiamo anche chiederci di incartarci il cibo buonissimo che preparano per noi, loro lo fanno senza domandare e senza protestare. La fama rende gentili le persone.

Finito di mangiare, usciamo dal ristorante e andiamo a bere un digestivo. E’ un’abitudine ormai. E’ una cosa che ci unisce e che ci fa pensare un po’ meno ai problemi del mondo. Qualcuno a volte esagera e dobbiamo riaccompagnarlo a casa, ma non è mai un peso. La gente ci guarda male quando qualcuno di noi non sta proprio bene. Siamo famosi e facendo così non stiamo dando loro un buon esempio. Ma siamo anche noi umani e abbiamo i nostri vizi. La notorietà non ti rende perfetto. Ci divertiamo insieme, io e quelli come me. Abbiamo vissuto tutti esperienze simili, sappiamo bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi che questa vita porta.

Di giorno, quando non siamo impegnati a suonare, ci vediamo. Camminiamo insieme, beviamo l’aperitivo insieme. Come persone normali che passano un pomeriggio normale. Immagino che per la gente sia una sorpresa enorme vedere due persone famose insieme. Se ti capita di vederne una sei fortunato, ma se ne vedi due è sicuro che il giorno dopo vincerai alla lotteria. Ci guardano tutti stupefatti, ma noi siamo abituati ormai, non diamo più molta importanza queste piccole cose. Ci siamo abituati e la forza dell’abitudine è più forte del giudizio della gente.

Ogni sera me ne vado a casa e guardo con malinconia i ricordi dei miei viaggi, della mia vita passata. E’ una cosa che non riesco a non fare. Piccoli segni sulla mia pelle, di tagli e cadute nelle strade delle montagne; spille e scritte sulla custodia della mia chitarra che mi hanno lasciato donne di vari paesi. Cartoline delle città in cui sono stato; ne prendevo sempre una, giusto per non dimenticarmi di nessun luogo. Giocherello con il mio braccialetto di conchiglie che mi regalò una danzatrice sulle spiagge del Perù e senza rendermene conto, mi addormento.

Mi sveglio con le prime luci dell’alba, mi succede tutte le mattine. Questa mattina il cielo è limpido e luminoso, non ci sono nuvole e il sole sorge come se avesse fretta. Inizia un’altra giornata.

Sta mattina la mia voglia di suonare è poca, le dita mi fanno male e non ho dormito così bene questa notte. Ma devo farlo, non posso deludere la gente.

Mi alzo dal letto e vado a suonare.

Prendo le poche copie del mio disco che mi sono rimaste.

Vado in una strada abbastanza larga, mi metto a lato di una chiesa, apro la custodia della mia chitarra blu, la tiro fuori, mi siedo per terra e inizio a suonare.

Passa un bambino, è mano con sua madre, stanno ridendo.

Mamma, dai un euro al barbone, magari mi suona la canzone per il mio compleanno.”

Suono la canzone del compleanno. Vanno avanti. Passano dei ragazzi, si girano a guardarmi, come sono famoso. Passano le anche le ore, e riesco a guadagnare qualche euro. Non vedo l’ora che sia sta sera. Ho fame e alla mensa per i senzatetto sta sera cucinano la carne.


Io ho tutto. La mia chitarra blu e la mia libertà. E’ tutto quello che ho.






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